Organizzare e dirigere in emergenza

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Nessuna organizzazione è pronta a sopportare l’emergenza, a meno che non si tratti di un ente che sia strutturalmente fondato per farvi fronte, come i Vigili del fuoco o le strutture di pronto soccorso. E in quel caso, come insegna l’esperienza, i problemi riguardano la gestione della vita ordinaria, cioè nell’attesa dell’emergenza, per la capacità che viene richiesta di passare, in tempi brevissimi, da una situazione caratterizzata da staticità a un’altra nella quale ogni decisione deve essere assunta in tempi brevi.

L’emergenza ha i suoi codici e una sua propria specificità che sono capaci di modificare le dinamiche e le prospettive del contesto. E ciò si evidenzia nelle ridefinizione delle priorità che rappresentano l’aspetto di maggiore conflitto per qualsiasi ambiente organizzativo: lavorativo, associativo, familiare.

Radunati all’interno di un contesto in condizioni normali, una volta apparsa l’emergenza, accade qualcosa di strano e imprevisto: si modifica e si sovverte sostanzialmente l’ordine di ciò che conta. Tutto non è più come prima.

A dire il vero, non è un segreto, anche in una situazione di “normalità organizzativa” non sempre le priorità sono definite e condivise. Non sono pochi i contesti che appaiono come sistemi in equilibrio instabile e nell’attesa permanente delle condizioni che consentano un giusto equilibrio tra gli interessi individuali e quello “istituzionale”.

Ma nella normalità si possono trovare i rimedi che il tempo consente, anche facendo ricorso alla disponibilità dei volenterosi e di quelli che avvertono sentimenti di passione e senso del dovere. In emergenza, però, questo meccanismo non funziona.

L’emergenza richiede, invece, l’esigenza di “serrare le fila” e di riportare tutti gli appartenenti al contesto organizzativo verso la condivisione “forzata” degli interessi dettati dalle nuove priorità. In quella situazione non è più lecito avanzare richieste dettate da pretese individuali se contrastano con le nuove finalità. Non si possono rispettare i tempi delle decisioni e dell’ampio coinvolgimento, perché l’urgenza richiede l’adozione di decisioni in tempi brevi. Non si possono prendere in considerazione prassi e abitudini, ancorché siano consolidate, se queste non sono funzionali rispetto alle finalità da perseguire.

E’ come se si cambiasse lavoro, senza cambiare persone e contesto fisico.

Ma quanti sono disposti a comprendere questa situazione? E quanti di quelli che l’hanno compresa sono disposti ad accettarla?

E’ in emergenza che si evidenziano i veri problemi dell’organizzazione che, nella normalità sembrano sopiti perché sopravvivono sotto traccia fino al punto da non avvertirli più, ma che invece sono pronti a emergere in ogni circostanza propizia.

Per esempio è nei momenti dell’emergenza che si evidenza chi è mosso da maggiore sensibilità per ciò che è condiviso dal contesto come prioritario. Sono quelle persone che si mettono al servizio e orientano la propria azione in direzione delle nuove finalità da perseguire. E più sono in gioco valori “umani”, più questi sentono il dovere di rinunciare a pretese e diritti. Accade adesso, per esempio, a tutte quelle persone che operano nelle strutture sanitarie, a più diretto contatto con le persone che manifestano bisogni e problematiche legati al rischio della salute.

Ma non tutti avvertono l’emergenza allo stesso modo. Chi, in condizioni normali, partecipa alla vita dell’ufficio, con atteggiamento di distacco e disinteresse o con l’attenzione accentuata ai propri diritti e alle rivendicazioni personali, difficilmente potrà essere utile in emergenza. Magari penserà che la questione non lo riguardi o troverà occasione per evidenziare il modo errato scelto dagli altri di affrontare la situazione, contestando decisioni e ruoli. O peggio, approfittando delle contingenze troverà il modo di rivendicare la tutela di diritti, senza curarsi delle condizioni di lavoro degli altri, magari nel convincimento che sia la “stupidità” a impedire agli altri di avanzare analoghe rivendicazioni.

L’emergenza ha la capacità di portare alla luce le dinamiche recondite dei contesti organizzativi. Si palesa il grado di motivazione di ogni dipendente, la disponibilità alla condivisione delle azioni e delle decisioni, la capacità di farsi coinvolgere e di partecipare attivamente, la propensione a focalizzare l’attenzione sul proprio ruolo, piuttosto che sulle proprie pretese.

Ma questo vale anche per i dirigenti, ai quali si richiede subito di manifestarsi per la loro capacità di assumere decisioni, individuare le azioni da realizzare e coordinare i collaboratori, anche in condizioni caratterizzate da incertezza del quadro normativo, carenza di risorse e gravi responsabilità delle proprie azioni, anche con riferimento all’ambiente esterno.

Certamente mai come in questo momento è indispensabile riscoprire l’importanza delle “leve informali” del sistema organizzativo.

In condizioni di normalità, inevitabilmente si fa riferimento ai ruoli rivestiti, alle responsabilità esercitate, alle competenze attribuite, che sono componenti del sistema “formale”. Si rivendicano ruoli, anche se solo per definirne poteri e confini o soltanto per l’intenzione di esercitarli.

Quando sopraggiunge una situazione di emergenza è come se l’organizzazione fosse passata al setaccio e rimangono attive solo le persone effettivamente disponibili e responsabili. Quelle che, in coscienza sanno di rivestire un ruolo all’interno dell’organizzazione e quelle che avvertono l’esigenza di sentirsi utili, per il contesto organizzativo e per il contesto sociale.

Non si tratta di esprimere un giudizio nei confronti di qualcuno, ma di una reale constatazione: nel momento in cui si è chiamati a essere utili per un’esigenza “esterna” rispetto a quella individuale, rispondono alla chiamata solo quei soggetti che sanno mobilitarsi per un fine nobile e per l’affermazione di valori solidali.

Ed è semplicistico affermare che sia solo una questione di carattere e rimandare ciascuno alla propria sensibilità o all’educazione ricevuta.

Anche l’ambiente lavorativo è una “agenzia educativa”. E’ il luogo nel quale apprendiamo la dimensione sociale di tipo “retributivo”, ma anche quello in cui siamo chiamati ad assumere responsabilità di ruolo, a prendere decisioni, a integrarci con gli altri, condividere spazi e dare risposte a bisogni interni ed esterni.

Sono tutti aspetti che, dispiace doverlo riconoscere, si trascurano, nella convinzione che ogni ruolo organizzativo si possa affrontare nel silenzio, contando sul bagaglio di valori e di buona educazione che ciascuno porta da sé.

Mai come oggi, non è così. In una società frammentata, che si caratterizza per l’individualismo spinto e concreto, c’è bisogno, in ogni ambiente, di riaffermare e promuovere valori di riferimento e di isolare, conseguentemente, i disvalori.

Questo è un compito del vertice organizzativo.

Spetta ai dirigenti evidenziare le priorità organizzative, promuoverle e affermarne il contenuto di valore, anche nei piccoli gesti e soprattutto nei comportamenti e nelle relazioni.

Sono molti di dirigenti che, non riuscendo in questo compito difficile, preferiscono fare da soli e si limitano a intendere il rapporto di lavoro come la mera assegnazione di compiti.

Adesso che l’emergenza con lo smart working ci costringe all’assegnazione di compiti, ci accorgiamo che, affinché questo sistema funzioni, è necessario avere prima costruito una base di relazione che consente di intendersi, anche a distanza, promuovendo il coinvolgimento e la condivisione delle priorità e manifestare la necessaria autorevolezza che si richiede a chi dirige.

Per questa ragione, anche se lavoriamo a distanza, non dobbiamo rinunciare al contatto costante con i collaboratori, anche con videoconferenze mattutine o confronti su temi, creando quelle condizioni tipiche di una riunione di lavoro. Anche se prima non lo avremmo fatto.

La direzione si esprime nella promozione della “complicità” rispetto alle finalità da conseguire. E questa si ottiene solo con il contatto costante, anche a distanza.

articolo pubblicato su www.lentepubblica.it 

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