riprogettare la “performance” dopo l’emergenza*

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La definizione del termine “performance” è una delle questioni più controverse nel nostro sistema amministrativo. Certamente la ragione risiede, innanzitutto nella (inopportuna) introduzione del termine inglese in un contesto che, oltre a usare una lingua diversa, si caratterizza per diverse modalità di organizzazione, quadro normativo, assetto istituzionale e non ultimo, “componente umana”, quella che i più cinici chiamano “risorse umane”, al pari di quelle materiali, strumentali, finanziarie, ecc.

Sappiamo che la definitiva introduzione del termine “performance” risale alla “riforma Brunetta” che, nell’intento di “ottimizzare la produttività del lavoro” (peraltro commettendo una imprecisione perché si ottimizza un processo, non la produttività che invece esprime l’esito) ha pensato bene, giustamente, di focalizzare l’attenzione sulla qualità delle prestazioni lavorative dei dipendenti pubblici.

Sappiamo bene che tale aspettativa è stata preceduta dall’annunciata epurazione dei “fannulloni”, di cui le pubbliche amministrazioni sarebbero state invase, ma di cui non si ha alcuna notizia, se si escludono le vicende disciplinari di ordinaria amministrazione, al netto degli esiti dei processi.

E sappiamo bene che, a ben vedere, non sembra che a seguito di quel provvedimento si sia registrato questo picco di “produttività” nelle pubbliche amministrazioni. In compenso, grazie a quella riforma, salutata come fase catartica e palingenetica destinata a determinare un cambiamento significativo, ogni dipendente, prima orientato al conseguimento dei fini istituzionali o degli adempimenti, è stato invaso da sistemi di misurazione di tutto ciò che, essendo facilmente misurabile, è inevitabilmente banale (come direbbe Horkheimer).

Abbiamo assistito alla emersione di fior di economisti affannati a trovare numeri per esprimere ciò che, essendo sfidante, valeva la pena di essere misurato e di generare il giusto premio. E obiettivi che avrebbero dovuto rappresentare l’aspettativa istituzionale attribuita a ogni ruolo, bocciate dopo il setaccio della “sfidatezza” (si è letto anche questo non-logismo) per potere conseguire la valutazione, ritenendo spregevole il conseguimento delle attività ordinarie. Nel frattempo, altri professori, di credo diverso (o senza alcuna teoria) invertendo la rotta , hanno inondato le pubbliche amministrazioni di adempimenti, anche per la più piccola azione, trasformando gli “obblighi” in “obiettivi” (come nel caso dell’articolo 14 del dlgs 33/2013).

Se poi si ha la buona volontà di leggere per intero l’articolo 5, insieme all’articolo 9 del decreto legislativo 150/2009, dopo il passaggio (non indolore) del ministro in carica nel 2017, si nota che gli obiettivi dovrebbero così connotarsi:

  1. Obiettivi generali (triennali) che identificano le priorità strategiche
  2. Obiettivi specifici (triennali) di ogni pubblica amministrazione
  3. Obiettivi annuali
  4. Obiettivi di performance dell’ambito organizzativo di diretta responsabilità
  5. Specifici obiettivi individuali
  6. Specifici obiettivi definiti nel contratto individuale
  7. (nonché) obiettivi contenuto nel Piano della performance

Si comprende subito che l’argomento, anche per la contraddittorietà del contenuto, è stato oggetto di più passaggi, affatto coordinati, tutti con la presunzione di mettere ordine e con il risultato di generare nuova confusione e la speranza che nessuna amministrazione rispetti per intero le prescrizioni perché, altrimenti dovrebbe trascorrere più tempo a definire gli obiettivi che a realizzarli. Ma viene il dubbio che qualcuno davvero intenda che ciò possa essere giusto.

Nel frattempo ogni pubblica amministrazione ha vissuto il drastico contenimento delle risorse, di qualunque genere e persino il peso di nuovi e pressanti bisogni da soddisfare e l’aggravio di nuovi adempimenti che hanno reso “sfidante” e persino eroico il conseguimento delle attività ordinarie.

Tuttavia non manca chi, ancora, usando argomenti di nostalgica antichità accademica (che non hanno mai trovato pieno riscontro nelle realtà aziendali) insiste con forme di palese accanimento isterico a volere imporre una definizione di “performance” caratterizzata dalla individuazione di “obiettivi smart”, indicatori di qualcosa e misuratori di palesi banalità.

Non sono pochi i casi di chi, nell’esercizio della valutazione (quindi senza alcuna legittimazione nella scelta delle aspettative di risultato, che compete all’organo di programmazione) pretende di misurare “il tempo di risposta a pareri”, “il numero delle determinazioni”, “il rispetto di una scadenza” programmata mesi prima per la realizzazione di azioni non finanziate, ecc.

Gli esempi della vuotezza della valutazione della performance sono sotto gli occhi di tutti, tanto da fare invocare, ormai in modo diffuso, una ragionevole soppressione dell’istituto e la distribuzione indiscriminata a tutti delle somme che oggi gravano sull’intero sistema.

La questione è già accennata nell’articolo 5, comma 11-quater della legge 135/2012 che, infatti, prescrive che ogni amministrazione monitori annualmente “l’impatto della valutazione in termini di miglioramento della performance e sviluppo del personale, al fine di migliorare i sistemi di misurazione e valutazione in uso”.  Dunque, il dubbio prima accennato ha colpito anche il legislatore, tanto di richiedere l’adempimento di uno specifico monitoraggio che, senza alcuna sorpresa per chi legge, possiamo affermare senza ombra di dubbio, che nessuno lo abbia mai fatto, né abbia intenzione di farlo.

La questione, tuttavia, non risiede nella funzione valutativa, che certamente deve essere rivista allontanandola dalla impostazione dirigistica di amministrazioni centrali ed “esperti” senza alcuna reale esperienza di direzione aziendale o amministrativa, per affidarla, come è giusto che sia, alla responsabilità consapevole dei singoli contesti. Risiede invece nella definizione di “performance” (o nell’auspicabile restituzione del termine al Paese di origine) che in un contesto ad elevata variabilità ed elevatissima complessità strutturale, oltre che in presenza di vincoli insormontabili e quadro normativo contraddittorio, non può assolutamente (se si vuole essere credibili) concentrare l’attenzione su ciò che rappresenta “l’output”.

E’ come se mi chiedessi quanto tempo impiega una persona per percorrere centro metri, senza preoccuparmi se abbia le gambe, disinteressandomi se trascini una pesante zavorra, se il terreno sia in salita o in discesa, se mentre lo percorre non gli tendano trappole o gli lancino sassi o persino se, tra la partenza e il traguardo non vi sia una voragine da superare.

Pretendere di ridurre la “performance” al conseguimento di dimensioni attese (peraltro decise da chi non conosce il contesto e non ha mai diretto nemmeno la corsia di un supermercato) esprime il grave difetto di “semplicismo” di cui è pervaso il nostro Paese dove proliferano personaggi (persino ricercati) che somministrano formule e algoritmi per ogni bisogno, con il risultato che farebbe inorridire qualsiasi serio studioso, cioè la semplificazione della complessità che equivale alla banalizzazione superficiale di ciò che, invece, richiede analisi approfondita e consapevole.

Questo pericolo è ancora più presente oggi, nella realtà che lo stato di crisi, determinato dall’emergenza COVID 19, ha determinato. Sarebbe, infatti, da irresponsabili pretendere di interpretare la realtà amministrativa allo stesso modo di sempre. E sarebbe una buona ragione per la revoca se un valutatore, si presentasse con la nota della spesa degli indicatori fissati a gennaio e chiedesse lo stato di attuazione. E sarebbe da scandalo istituzionale se un controllore chiedesse conto delle performance del primo quadrimestre (cosa che temo accadrà, generando lacrime e sangue).

Però, scusandomi per l’espressione che userò, l’emergenza di questi giorni può essere una buona occasione per rivedere il sistema della “performance” e della “valutazione”.

Mai come adesso si è registrato ciò che era palese a chi conosceva la PA, ma nascosto agli occhi di molti valutatori: le pubbliche amministrazioni vivono e lavorano permanentemente in condizioni di emergenza, per la quale, la più grande sfida è quella di riuscire ad assicurare ciò che loro definiscono “ordinario”.

Il passaggio repentino verso il “lavoro agile” ha costretto tutte le pubbliche amministrazioni ad adottare forme di monitoraggio più stringenti, fondate sui “compiti”, piuttosto che sugli “obiettivi” e orientate a rendicontare la “presenza da remoto”, piuttosto che quella in ufficio. E non sono pochi i direttori, dirigenti e segretari comunali che in questa occasione hanno scoperto il reale funzionamento della propria organizzazione, il contributo individuale effettivo di ciascuno e le “zone d’ombra” della propria amministrazione.

E’ giunto il momento che si proceda a una vera riconversione che porti all’adozione di nuovi paradigmi per l’organizzazione pubblica, abbandonando l’attenzione sui conseguimenti “elevati” e “sfidanti” e la corrispondente miopia (o cecità assoluta) nei confronti dei problemi reali di funzionamento quotidiano.

Qualsiasi esperto (che sia all’altezza di questo nome) di organizzazione aziendale sa bene che non ha alcuna ragionevolezza la pianificazione “statica” in un sistema che si caratterizza per la elevata variabilità e complessità. Al contrario, ciò che serve, è l’attivazione di sistemi di monitoraggio costante che abbassino il livello temporale delle pretese per concentrarsi sull’attuazione di ciò che, nell’immediato, riveste carattere di urgenza, anche se “ordinario”.

Ciò che serve nelle pubbliche amministrazioni non è la definizione di grandi obiettivi a cui segue un “tana libera tutti” fino alla fase della verifica sulla loro attuazione. Serve, invece un sistema di performance più concreto e dettagliato, fondato sull’attenzione alle azioni e alle interazioni, sugli adempimenti e sugli obblighi, sulle iniziative da avviare e sulla partecipazione quotidiana, sul presidio giornaliero e sulla rendicontazione costante.

Sono esattamente gli ingredienti del nuovo modo di lavorare che è stato definito “agile” e dal quale non dobbiamo affatto retrocedere, perché è proprio questo il modo (come auspicato da alcuni di noi, da sempre) che consente di realizzare la vera “organizzazione del lavoro” che non consiste nell’assegnazione di “cose sfidanti”, ma nella creazione di “sistemi” di persone che cooperano nel quotidiano per la realizzazione di ciò che risulti urgente, laddove le urgenze sono sempre esogene e dettate dal territorio o da altre Amministrazioni.

E’ giunto il momento di cambiare modo di intendere la performance, quindi anche la valutazione e probabilmente, anche qualche valutatore.

Santo Fabiano

*) articolo pubblicato su www.lentepubbica.it

 

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