Il lessico organizzativo*

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Nel film “Palombella rossa” Nanni Moretti si rivolge arrabbiato verso una “signorina” che utilizza parole scomposte dicendole: “Le parole sono importanti. Chi parla male vive male!”.

Chissà quante volte ci siamo trovati invischiati in situazioni rese difficili dall’utilizzo di parole inappropriate o persino inopportune.

Omero, nell’Iliade descrive Achille che si rivolge alla dea Athena utilizzando “parole alate”, significando che l’effetto di una conversazione dipende dalle parole che vengono utilizzate.

Anche il nostro contemporaneo Bill Gates, nonostante che abbia fondato il suo impero sulla tecnologia informatica, arriva ad affermare che “Il computer più nuovo al mondo non può che peggiorare, grazie alla sua velocità, il più annoso problema nelle relazioni tra esseri umani: quello della comunicazione. Chi deve comunicare, alla fine, si troverà sempre a confrontarsi con il solito problema: cosa dire e come dirlo”.

Perché da come si dice e da cosa si dice o persino, dal momento scelto per dire qualcosa dipende il significato o persino l’efficacia del messaggio.

Le parole hanno il compito di costruire le reti di contatto e le relazioni con le altre persone. Sono come i colori di una tavolozza. Chi ne dispone in numero maggiore ha più possibilità di esprimersi, farsi capire, di avere ragione e comunque di relazionarsi. Chi invece, per pigrizia o per ignoranza ricorre sempre alle stesse parole è come se si esprimesse usando solo il bianco e il nero.

Ebbene, le parole arredano le relazioni, ne colorano le pareti, le rendono forti o deboli, piacevoli o spiacevoli, vive o morte, facili o complesse, produttive o improduttive. Accade così nel rapporto tra individui, ma a ciò non sfuggono le organizzazioni.

Le parole non sono neutrali e hanno una valenza suggestiva che ha il potere di condizionare l’ambiente e determinarne le caratteristiche.

E’ per questa ragione che i documenti fondativi delle organizzazioni si aprono con l’affermazione dei “principi”. Perché si vuole che attraverso quelle parole venga fissato l’orientamento delle azioni dei consociati.

Ma non basta scrivere delle belle parole una volta per tutte. Ogni organizzazione vive in funzione di “ciò che si dice al suo interno” e di “come lo si dice”. Ne abbiamo la prova con i social network nei quali tutte le battaglie, i contrasti, le vicende varie, sono il frutto della combinazione delle parole scritte, lette o interpretate.

Ci sono parole ed espressioni che aiutano la relazione organizzativa. E sono quelle orientate alla coesione, alla collaborazione, alla fiducia verso il prossimo, compresi i colleghi. Ma ce ne sono altre che si presentano come ostili al riconoscimento di un contesto unitario e spingono verso l’affermazione di solitudini conviventi, ma non per questo coese.

Le prime derivano dal riconoscimento di valori condivisi e di solito vengono evocate accompagnandole con sguardi che potremmo definire “alati”, cioè orientati verso le “cose alte”, volendo riconoscere che tutto ciò che ci unisce e ci porta a considerarci una comunità civile è al di sopra di tutti. Sono quelle in cui si parla di “missione istituzionale”, “interesse collettivo”, “servizio alla Nazione”, “interesse aziendale”, “rispetto reciproco”, “passione per il lavoro”, “progetti di sviluppo”, ecc.

Le seconde sono più “prammatiche” ed esprimono la rottura del legame tra i partecipanti e l’organizzazione che viene intesa come un contenitore di persone, ma non come un luogo di condivisione di valori e progetti. In questo caso prevale l’attenzione “all’interesse personale”, alla affermazione di “bisogni diversi” rispetto all’azienda o alla istituzione, alla percezione dell’attività lavorativa come “mero adempimento” o come “peso da cui liberarsi”.

Ci sono quindi parole che uniscono, che incoraggiano e rendono persino piacevole e appassionante l’attività lavorativa e altre che allontanano, frammentano le relazioni e le rendono difficili, formali e distaccate.

Un esempio chiaro dell’effetto delle parole sulla organizzazione ci viene dato dal contrasto alla corruzione. La convenzione di Merida, siglata dall’ONU alla fine del 2003 afferma, all’articolo 1, lettera c), l’esigenza di “promozione dell’integrità, della responsabilità e della buona fede nella gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici”, nella convinzione che il modo migliore per rendere la pubblica amministrazione impermeabile alle interferenze esterne sia quello di rafforzarne i valori comuni.

Nel nostro Paese, invece, quell’invito è stato interpretato in modo contrario e opposto, promuovendo il sospetto generalizzato tra le istituzioni e all’interno delle stesse, creando così una paralisi amministrativa che non ha contenuto il fenomeno corruttivo, ma ha determinato un grave appesantimento dell’azione pubblica.

E’ la conseguenza delle parole utilizzate. Promuovere la buona fede vuol dire puntare sull’affermazione di ciò che c’è di buono, fino al punto da evidenziarlo, valorizzarlo e condividerlo, isolando il contrario. Promuovere invece la “ricerca dei disvalori”, ha spinto tutti verso la sfiducia nell’altro e ha promosso la frammentazione delle organizzazioni la cui vita dipende esclusivamemte dalla capacità di creare legami e condivisioni.

Ma non è possibile creare legami e condivisioni in un contesto in cui la “frequentazione” è intesa come un disvalore, la tensione verso il risultato come una leggerezza e l’astensione come un valore.

Se vogliamo che le nostre organizzazioni funzionino dobbiamo recuperare il valore del lessico restituendo il giusto significato a ciò che fa bene al sistema amministrativo e promuovendolo con forza. Perché, come dice l’ONU nella Carta di Merida, bisogna promuovere la “buona fede”.

*) articolo scritto per www.lentapubblica.it

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