19. E’ lecito pubblicare i redditi dei dirigenti dopo la sentenza 20/2019 della Corte Costituzionale?

La norma che obbligava alla pubblicazione dei dati relativi ai redditi dei dirigenti è stata dichiarata incostituzionale. Tuttavia la recente deliberazione dell’ANAC ne prescrive ugualmente la pubblicazione. Come dobbiamo comportarci? Si può correre il rischio, pubblicando i dati, in assenza di una esplicita prescrizione normativa, di violare le norme sulla tutela dei dati personali?


Con riferimento al quesito relativo alla vigenza degli obblighi di pubblicazione a carico dei Responsabili dei servizi, relativamente ai dati riguardanti le dichiarazioni dei redditi, nonché i diritti reali sui beni immobili, mobili registrati, ecc, così come prescritto dall’art. 14, lettera f) del decreto legislativo 33/2013, riporto di seguito le considerazioni che derivano dall’esame della sentenza della Corte Costituzionale n. 20/2019.

La Corte, nella sentenza richiamata ha evidenziato che, nel caso in esame si è in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.

In particolare ciò che viene esaminato è la questione relativa alla legittimità costituzionale delle disposizioni previste nell’articolo 14 del decreto legislativo 33/2013, laddove vengono estesi ai dirigenti (e titolari di posizione organizzativa) gli obblighi prescritti per i titolari di incarichi politici relativi alla pubblicazione sul sito istituzionale dell’ente, delle rispettive dichiarazioni dei redditi, estendendo tale obbligo anche “al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano”.

Gli aspetti di maggiore criticità presi in esame dalla Corte hanno riguardato, sia la possibile violazione del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione, sia la violazione dei principi che disciplinano la diffusione dei dati personali.

Sotto quest’ultimo profilo, il giudice remittente aveva evidenziato che le disposizioni legislative sarebbero in aperto contrasto, tra l’altro, con l’art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.

Lo stesso giudice, inoltre aggiunge che le disposizioni in esame si porrebbero altresì in contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., poiché i diritti inviolabili dell’uomo e la libertà personale risulterebbero lesi da obblighi di pubblicazione funzionali bensì a esigenze di trasparenza amministrativa, ma non idonei a scongiurare «la diffusione di dati sensibili», per un verso superflui ai fini perseguiti dalla disciplina, per altro verso «suscettibili di interpretazioni distorte».

Sulla base di tali argomentazioni la Corte afferma che “l’ammissibilità delle questioni sollevate, emerge anche alla luce della circostanza che la disciplina legislativa censurata, che estende a tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni obblighi di pubblicazione di dati già in vigore per altri soggetti, opera, come si diceva, su un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche in visibile tensione – diritti e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato.

Da una parte, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti. Un diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di disciplina, nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 173 del 2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente. Nell’epoca attuale, esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a sua protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali. Si tratta dei già ricordati principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati.

Si aggiunge inoltre che “I diritti alla riservatezza e alla trasparenza si fronteggiano soprattutto nel nuovo scenario digitale: un ambito nel quale, da un lato, i diritti personali possono essere posti in pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni, e, dall’altro, proprio la più ampia circolazione dei dati può meglio consentire a ciascuno di informarsi e comunicare.”

Nel testo del provvedimento si richiama anche la Corte di giustizia dell’Unione europea che, al riguardo, ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti.

Nella pronuncia da ultimo richiamata, in particolare, si afferma che non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali

A giudizio della Corte, quindi, l’onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione.

In definitiva, conclude la Corte Costituzionale, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Nel dichiarare quanto sopra riportato, viene inoltre affermato che  “non spetta a questa Corte indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del legislatore”. “Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi”.

Conseguentemente, oltre ad avere cognizione della dichiarata incostituzionalità della norma, ancorché relativamente ad alcuni aspetti specifici, si prende atto che la Corte rimanda al legislatore il compito di ridefinire il quadro normativo, ritenendo, così, evitare l’applicazione di eventuali interpretazioni della norma che potrebbero essere forieri di disparità di trattamento.

Successivamente, l’ANAC, con la deliberazione n. 586 del 26 giugno 2019, avente come oggetto “Integrazioni e modifiche della delibera 8 marzo 2017, n. 241 per l’applicazione dell’art. 14, co. 1- bis e 1-ter del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 23 gennaio 2019” è tornata sull’argomento, allo scopo di rendere un quadro organico, anche con riferimento alle proprie precedenti deliberazioni.

Dall’esame di quest’ultimo documento si evince che l’Autorità, piuttosto che limitarsi all’applicazione della sentenza, ha ritenuto di dovere ridefinire l’ambito applicativo della norma, nonostante che la stessa Corte abbia precisato che tale compito fosse rimesso al legislatore e ha inteso correggere la Consulta nelle conclusioni assunte in ordine ai soggetti a cui si applicherebbe l’obbligo della pubblicazione dei dati, oggetto del rilievo.

Nel testo del provvedimento dell’ANAC, si legge, infatti “il fatto che la Corte richiami una norma del d.lgs. 165/2001 come parametro unico di riferimento per graduare gli incarichi dirigenziali, non permette di escludere che la normativa, nei termini indicati dalla Corte, possa essere applicabile anche alle amministrazioni non statali ma anzi, proprio da una lettura complessiva della sentenza, si deve ritenere che anche queste ultime siano ricomprese nell’ambito di applicazione della disciplina.”

Prosegue inoltre: “In relazione a quanto sopra, pertanto, ad avviso dell’Autorità, i dirigenti cui si applica la trasparenza dei dati reddituali e patrimoniali di cui all’art. 14 co. 1 lett. f) sono i titolari di incarichi dirigenziali a capo di uffici che al loro interno sono articolati in uffici di livello dirigenziale, generale e non generale. Le amministrazioni a cui si applica la disposizione sono quelle di cui all’art. 1, co. 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, ivi comprese le autorità portuali, le Autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione nonché gli ordini professionali, sia nazionali che territoriali, come previsto dalla delibera dell’Autorità 241/2017 (par. 1 – “Amministrazioni ed enti destinatari delle Linee guida”).

Riguardo ai titolari delle posizioni organizzative viene inoltre affermato: “Con riguardo ai titolari di posizione organizzativa di livello dirigenziale di cui al co. 1-quinquies dell’art. 14, la sentenza della Corte impone di riconsiderare, alla luce del criterio della complessità della posizione organizzativa rivestita, le indicazioni contenute nella delibera 241/2017. Così, solo qualora detti soggetti svolgano compiti propositivi, organizzativi, di gestione di risorse umane, strumentali e di spesa “ritenuti di elevatissimo rilievo” e assumano la titolarità di uffici che hanno al loro interno una struttura complessa articolata per uffici dirigenziali, generali e non, trovano applicazione gli obblighi di trasparenza di cui all’art. 14, co. 1, lett. da a) ad f). Diversamente, qualora tali criteri di complessità non si rinvengano, resta esclusa l’applicazione della sola lett. f).”

Da quanto sopra emerge una evidente complessità che, soprattutto sul fronte del trattamento dei dati personali, può generare l’insorgere si situazioni di contenzioso. Le pubbliche amministrazioni, infatti, sono tenute a pubblicare esclusivamente le informazioni personali che derivino da obblighi di legge (art. 7-bis, decreto legislativo 33/2013). Poiché la norma che prescrive la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi propri e dei familiari, con la sentenza n.20/2019, è stata dichiarata incostituzionale, tale adempimento rimane privo di ogni previsione che ne legittimi la pubblicazione. Né può intendersi che la deliberazione n.596 del 26 giugno 2019, pur se finalizzata alla sistematizzazione della materia, possa rientrare tra “le specifiche previsioni di legge o regolamento” richiamate dal richiamato articolo 7-bis.

Da ciò discende che, a giudizio dello scrivente, la pubblicazione dei dati relativi alle dichiarazioni dei redditi, nonché, e ai diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, ecc., previste dall’art. 14, comma 1, lettera f) del decreto legislativo 33/2013, a seguito della decisione di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale con la deliberazione n.20/2019, non essendo prescritta da alcuna norma in vigore, potrebbe comportare possibili situazioni di violazione in ordine al trattamento dei dati personali fino a una diversa previsione normativa che disciplini esplicitamente l’adempimento richiesto.

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